La visita a Washington di Mahmoud Abbas (detto Abu Mazen), presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha riportato in primo piano il contenzioso della Palestina, che negli ultimi tempi era stato trascurato da giornali e televisioni. I media, infatti, si sono concentrati su materie quali le vicende dell'Iraq e la sorte di Bin Laden, ponendo in secondo piano la questione che, invece, rappresenta la chiave per la stabilità dell'intero Medio Oriente. Si potrebbe pensare che la situazione in Palestina, in virtù del fatto che la regione non è oggetto di eccessive attenzioni, sia per il momento piuttosto tranquilla. Da qualche tempo non si leggono i bollettini di guerra cui si era abituati e che registravano quasi ogni giorno un attacco suicida da parte palestinese e una rappresaglia dell'esercito israeliano contro i villaggi nei territori occupati. La spirale di violenza pare essersi arrestata e ciò potrebbe far credere che i leader delle due parti (il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il premier israeliano Ariel Sharon) siano in grado di controllare gli estremisti dei rispettivi schieramenti. In effetti i due governi hanno ottenuto qualche risultato positivo rispettando gli accordi pattuiti al vertice di Sharm el-Sheik, che si è tenuto lo scorso 8 febbraio.
In Israele Sharon è sopravvissuto alla fronda dei deputati dell'estrema destra nazionalista e ha ottenuto la maggioranza in parlamento per dare avvio al ritiro da Gaza. Sul versante palestinese il governo di Abbas sta agendo in modo incisivo contro le fazioni armate, tra cui Hamas e Al-Aqsa, contro le quali Yasser Arafat (l'ex rais scomparso il 12 novembre 2004) non aveva mai lottato con convinzione. Le due parti hanno compiuto dei progressi e si trovano in condizione di poter centrare traguardi storici. In ogni caso è vietato illudersi, dal momento che si sta vivendo uno stato di calma apparente. Dietro la facciata di un'ingannevole tranquillità si nascondono molti timori che la situazione possa di nuovo esplodere. In questo momento Israele e Anp paiono trovarsi in una condizione simile a quella che precedeva il vertice di Camp David del luglio 2000. Quell'evento, che poteva davvero segnare lo spartiacque della storia della Palestina contemporanea, risultò invece essere la causa scatenante della seconda Intifada, esplosa nel settembre 2000. In politica internazionale, come in molti altri ambiti, quando si alimentano delle aspettative queste devono essere soddisfatte, per evitare che ciascuno rinfacci all'altro la colpa per l'intesa mancata.
Sharon e Abbas si sono molto esposti, coscienti di giocarsi la possibilità di essere per sempre citati nei libri di storia. Adesso nessuno dei due può permettersi di ottenere - agli occhi dell'avversario e dei propri connazionali - meno di quanto promesso in pubblico. Qualora Israele non completasse il ritiro da Gaza, provvedendo pure allo smantellamento delle colonie, le fazioni armate palestinesi troverebbero un alibi per giustificare una nuova sollevazione popolare. Reazioni analoghe scaturirebbero in Israele se Hamas si dimostrasse capace di agire indisturbata, lanciando una nuova offensiva con attentati contro i civili israeliani. Di fronte a tale eventualità, gli estremisti d'Israele, oltre che invocare l'immediata reazione dell'esercito, chiederebbero di rimettere in discussione il dispiegamento da Gaza. Un periodo di stasi era necessario per consentire ai due leader di consolidare la loro autorità all'interno. Adesso, tuttavia, è necessario smuovere di nuovo le acque. Come abbiamo più volte osservato, le due parti hanno sempre avuto molte difficoltà a concludere negoziati diretti. Non è, perciò, plausibile, pensare che Israele e Anp possano risolvere il contenzioso in virtù di incontri bilaterali. Serve un grande lavoro diplomatico a livello internazionale. Soprattutto, è venuto il momento di agire per la Ue, mediatore ideale in Medio Oriente sotto il profilo politico e geografico.
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