Quando ebbe inizio il conflitto in Iraq, il presidente americano George Bush Jr., per giustificare una guerra decisa senza prove concrete e senza l’avallo dell’Onu, aveva avanzato una motivazione di tipo ideologico, affermando che gli americani intendono esportare la democrazia nel mondo. A tal fine, nella primavera del 2004 il capo della Casa Bianca ha lanciato un progetto di riforme denominato Grande Medio Oriente. Con tale termine si identificava quella macroregione formata da “i Paesi del mondo arabo, più Pakistan, Afghanistan, Iran, Turchia e Israele”. Bush mirava a realizzare un patto comune, in base al quale tutti questi Stati si sarebbero impegnati a realizzare riforme di stampo politico, economico e sociale.
A distanza di due anni, il piano di Grande Medio Oriente non ha riscosso i successi sperati da Bush. Nei primi mesi del 2005 erano accaduti vari eventi di rilievo che avevano alimentato grandi speranze, al punto di far parlare di “Primavera del mondo arabo”. Si erano avute le elezioni parlamentari in Palestina e in Iraq, l’annuncio di Mubarak di competizione libera e democratica per le presidenziali in Egitto, la rivoluzione dei cedri in Libano, accenni di riforme perfino in Arabia Saudita. Non si poteva che rimanere sorpresi di fronte a tanti sconvolgimenti in una regione per molti decenni ingessata da dittature e autoritarismi. Di fronte a un fenomeno politico e sociale così esteso, George Bush Jr. rivendicò il merito di questi mutamenti, asserendo di avere svolto un ruolo decisivo in virtù della sua politica finalizzata a esportare la democrazia nella regione.
Al giorno d’oggi, di quella primavera si sono perse le tracce. Al contrario, nel 2006 le cose paiono andare peggio rispetto a un anno prima. Iraq e Palestina, i presunti “buoni esempi” dei propositi di Bush, sono entrambe ben lontane dal raggiungimento di una stabilità democratica. Il Libano vive una fase di equilibrio precario fra le varie etnie e confessioni, tipico della storia del paese dei cedri. L’esempio più evidente di involuzione è l’Egitto dove Ayman Nour, il candidato più votato dopo Hosni Mubarak alle presidenziali di settembre 2005, si trova in carcere senza un valido motivo (con le potenze occidentali protagoniste di un colpevole silenzio). Il piano di Grande Medio Oriente pare perciò avere fallito l’obiettivo.
Riflettendo bene, si tratta di un insuccesso largamente annunciato. La proposta americana si basava su ipotesi astratte, elaborate senza considerare la storia e la cultura del Medio Oriente. La democrazia “tout court”, secondo il concetto del mondo occidentale, appariva di problematica attuazione in nazioni che mai hanno conosciuto tale sistema.
Il Medio Oriente non ha conosciuto né la Rivoluzione industriale né l’Illuminismo né la Rivoluzione Francese, vale a dire i tre eventi che più hanno contribuito allo sviluppo del pensiero politico e sociale nei paesi occidentali, originando la nascita delle varie tipologie di partiti politici (popolari, socialisti, liberali, comunisti). In Medio Oriente non si sono affermate forme di rappresentanza politica basate sull’ideologia. In questa complessa regione il potere si concentra nella figura del capo carismatico. Governo e parlamento (laddove esistono), sono strumenti senza reale capacità decisionale, sottomessi al volere del leader supremo cui obbediscono per ammirazione o per timore. La storia del Medio Oriente è soprattutto la storia di pochi capi carismatici spesso provenienti dall’esercito, autentico centro del potere politico in ogni Paese della regione. In ogni Paese del Medio Oriente il sostegno dell’esercito è stato fondamentale per arrivare (e per rimanere) al potere. Sulla base di queste considerazioni si deduce che la democrazia, per come è conosciuta nel mondo occidentale, difficilmente può essere esportata in blocco in Medio Oriente, in quanto le nazioni mediorientali hanno poca o nessuna dimestichezza con le forme di rappresentanza politica, caposaldo della nostra idea di democrazia.
La proposta di Grande Medio Oriente paventata da Bush, d’altronde, è stata immediatamente malvista da molte nazioni islamiche. Tali Paesi non intendono farsi imporre la democrazia nel modo concepito dalla superpotenza americana. Perfino il sovrano di Giordania Abdullah II, uno dei leader mediorientali più vicini a Washington, ha affermato che si deve ricercare una strada differente, che tenga in considerazione la differente storia di tali Stati.
I leader dei Paesi arabi dichiararono da subito di preferire il processo di Integrazione Euromediterranea (Euromed), giacché questo approccio non impone l’adozione assoluta di concetti a loro estranei. Euromed consiste in una cooperazione in vari campi e presuppone il contributo di entrambe le parti al processo decisionale. Non vi è un soggetto attivo e uno passivo, come invece l’opinione pubblica mediorientale pare credere a proposito dell’iniziativa di Grande Medio Oriente avanzata da Bush.
La chiave per affrontare le sfide presenti e future sta proprio in questo concetto: cooperazione paritaria e non subordinazione di una parte all’altra. I grandi problemi della regione si possono risolvere solo in questo modo, con una più stretta cooperazione fra i governi nazionali del Medio Oriente, le istituzioni internazionali e le potenze occidentali. In poche parole, per esportare la democrazia in Medio Oriente si deve rilanciare la forma di cooperazione e sviluppo che sta alla base del processo di integrazione Euromediterranea.
La Grecia contemporanea (1974-2006)
di Rudy Caparrini, Vincenzo Greco, Ninni Radicini
prefazione di Antonio Ferrari, giornalista, corrispondente da Atene per il Corriere della Sera
ed. Polistampa, 2007
Il Medio Oriente contemporaneo 1914-2005
di Rudy Caparrini
prefazione di Franco Cardini
ed. Masso delle Fate, 2006